La Romagna e l’alluvione

Ci siamo organizzati per dare una mano attivamente!

Questo fine settimana siamo andati a Slow Fish per raccontare cosa sta succedendo in Romagna, al di là delle
immagini televisive e dei social che sono state utilissime per portando la testimonianza di associati e amici e
delle difficoltà che stanno riscontrando soprattutto nelle zone collinari.

Siamo andati con delle magliette promozionali che abbiamo proposto per sostenere il territorio romagnolo. “Bevo bene e sostengo le terre alluvionate” e “Io bevo romagnolo” è il claim che abbiamo preparato e che abbiamo indossato con grande successo in questi giorni a Genova. Nelle giornate dell’evento abbiamo sensibilizzato più persone possibile, durante gli incontri, i laboratori e nelle chiacchiere.

E’ nato così l’accordo tra Tempi di Recupero e Slow Food Italia, attraverso il quale segnaleremo le criticità dei nostri soci ma anche quelle di tutto il territorio per portare avanti la campagna sull’acquisto di vini e prodotti romagnoli.

Lo abbiamo pensato nel suo insieme e senza uno scopo benefico diretto. In questo caso infatti, vogliamo promuovere il territorio nel suo insieme, con le proprie caratteristiche e specificità, creando possibilità in più per vendere il frutto di lavoro e passione che caratterizza buona parte della Romagna. Slow Food Italia proporrà “Io Bevo Romagnolo” alle osterie della sua rete (circa 1800 realtà) per acquistare e proporre ai propri clienti i vini romagnoli.

Nell’incontro con Slow Food Italia ci è stato promesso che l’associazione coinvolgerà inoltre le condotte sul territorio italiano promuovendo gruppi di acquisto e acquisto in primeur di vini, ortaggi, trasformati, miele, formaggi, ecc…

Inoltre durante la cena che abbiamo organizzato per Slow Fish il 3 giugno insieme allo staff di Quelli dell’Acciughetta e Dispensa Franciacorta, i nostri ospiti hanno deciso di devolvere il ricavato della serata per sostenere i territori alluvionati. Un menu strepitoso, in cui si sono incontrati pesci di mare e pesci di lago, con il limone come filo conduttore.

Ecco cosa abbiamo raccontato per descrivere la situazione sul territorio.

Partiamo dalla situazione delle città: sono state colpite quasi tutte quelle della Romagna, in forma più o meno grave, ma lasciando tantissime persone senza più i beni materiali e soprattutto i ricordi della loro vita. Per le persone di una certa età il danno è ancora più grande di quello che possiamo qui raccontare. In tanto sono ora senza casa, sfollati e molte di questi, pure senza un lavoro, dato che non esiste più. In alcuni casi, come a Faenza, alcuni hanno subito 2 alluvioni in meno di 15 giorni e sicuramente la loro capacità di ripartire è messa a durissima prova. Le fognature sono inoltre intasate dai fanghi a seguito dei lavaggi effettuati per liberare case e cantine e questo fa sì che ogni minima precipitazione non trovi sfogo e allaghi nuovamente le strade.

Per quanto riguarda la collina e la montagna le difficoltà sono spesso dirette, e parlano di allagamenti e frane che hanno portato via il lavoro e le produzioni, anche future. Ma si parla anche di difficoltà indirette, perché molti non possono raggiungere i luoghi di lavoro, come i vigneti e le cantine. A proposito di quest’ultimi, talvolta i produttori non riescono a fare i trattamenti necessari, mettendo a rischio la produzione annuale a causa della peronospora e oidio che certamente saranno molto presenti a seguito delle forti precipitazioni.

Ma i problemi non si fermano qui, e parliamo di isolamento, perché le persone che normalmente vengono in Romagna per trascorre qualche ora, per il fine settimana o le vacanze, si stanno tirando indietro con la conseguenza di contrarre l’indotto consueto.

Il che coinvolge a cascata molti produttori, di ogni categoria enogastronomica. Molti produttori, infatti, riforniscono un mercato principalmente locale, e se questo non sarà in grado di effettuare gli ordini consueti, a causa delle disdette, anche i produttori si troveranno con una contrazione delle vendite. Enormi sono i problemi legati in generale anche al settore ortofrutticolo, dove i fanghi argillosi stanno soffocando gli alberi da frutto, i seminativi e gli ortaggi. E se per seminativi e ortaggi i danni potrebbero essere recuperati nell’anno successivo, la morte degli alberi da frutto e delle viti richiederà diversi anni per poter ripartire.

Gli allevamenti di grande e piccola taglia hanno avuto danni gravi sia per la moria degli animali che per le produzioni bloccate. E con ciò si parla di animali per il consumo diretto, ma anche per la produzione di latte e latticini, e di uova. E non ultimo, l’emergenza delle api che nelle alluvioni sono decedute perché non in grado di nutrirsi o si sono disperse perché i favi si sono allagati. Questo metterà a rischio tutte le future impollinazioni e sarà un ulteriore grande problema.

Per quanto riguarda il turismo, si sta verificando un forte fenomeno di disdette e abbandono, soprattutto negli agriturismi delle località collinari. Ciò è ovviamente inevitabile per coloro che desiderano fare escursioni e trekking perché le difficoltà a prefigurare percorsi agibili e piacevoli sono oggettive. Purtroppo, accade anche per coloro che generalmente frequentano questi luoghi per rilassarsi nel fine settimana. E stesso andamento negativo per coloro che utilizzano questi luoghi come punti di partenza per visitare le città d’arte o le mete enogastronomiche.
Queste località, pienamente attive e con le strade percorribili, andrebbero sostenute e supportate. A maggior ragione perché, come abbiamo visto, il problema non è solo della singola attività ricettiva ma dell’indotto che essa genera.
Come abbiamo visto per quanto concerne il mare, dopo le disdette dei week end immediatamente vicini all’alluvione, oggi reggono decisamente, anche per la forte comunicazione che ha supportato le informazioni sulla sicurezza dei luoghi, tanto che la stagione è considerata prospetticamente salva. Riteniamo imprescindibile supportare e comunicare con la stessa efficacia anche riguardo al turismo delle zone collinari, gioiello della regione.

Abbiamo discusso di tutto ciò anche con Alessio Mammi, Assessore all’Agricoltura e Agroalimentare, Caccia e Pesca della Regione Emilia Romagna che ci ha parlato di circa 3000 frane di cui circa 1000 di entità importante, oltre che di una vastissima area di pianura che sarà inevitabilmente da bonificare. Anche a lui abbiamo raccontato delle iniziative e della promozione che stiamo portando avanti e ci ha confermato l’intenzione di appoggiare tutte le nostre attività.

Quello che si evince è un quadro ampio e complesso che lascia poco spazio all’immaginazione e la necessità di attivarsi immediatamente. Facendo qualche riflessione prospettica, siamo convinti che questa potrebbe essere un’occasione per ripensare le produzioni e le colture più in linea con i tempi, magari con meno bisogno di acqua, e più adatte a fronteggiare i cambiamenti climatici.​

La Logistica Consapevole

Prima ancora di parlare di trasporto va analizzato in modo sistemico il modello che governa il mondo dei trasporti: la logistica.

E’ l’insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano nell’azienda i flussi di materiali e delle relative informazioni dalle origini presso i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio post-vendita.

Significa che prima ancora di “caricare il camion” per avviare la catena del trasporto, sia essa lunga o corta, si deve ben analizzare come il prodotto potrà essere reso disponibile al consumo, utilizzando metodologie di progettazione come l’ecodesign o design sistemico e definendo dall’inizio parametri con cui misurare le sue performance ambientali.

Mentre risulta assai complesso misurare la sostenibilità del cibo, è senza dubbio più semplice calcolare la distanza che percorre un prodotto e il suo impatto, per esempio in termini di CO2 per kg di merce/km.

Il tasso di autosufficienza alimentare di una provincia media non supera allo stato attuale il 20% per cui dovremmo ripensare il sistema alimentare per ricostruirne uno più resiliente e sostenibile, che veda proprio nella logistica di prossimità il suo maggior valore, garantendo la freschezza del cibo stesso.

Un sistema che sia basato sui reali fabbisogni nutrizionali e il ruolo del cibo nella prevenzione della salute pubblica. Le indicazioni dietologiche “convenzionali” hanno dato troppo valore alla proteina animale.
Il modello che governa oggi il sistema alimentare, basato sull’efficienza economica per pochi e sullo spreco di tanti, è pieno di paradossi e contraddizioni. Tutti pensiamo che l’acqua in bottiglia di vetro sia più ecologica di quella in plastica, ma in pochi bevono “‘acqua del sindaco” in borraccia riutilizzabile, senza dubbio la più sostenibile. Questo per dire che il mercato offre di tutto, ma e nella consapevolezza dell’uomo, solo li, che si trova la risposta migliore.

Per altro non dimentichiamo che inquinare costa e promuovere una logistica sostenibile, di prossimità, significa tutelare l’ambiente e la salute pubblica, nostra e delle generazioni future. Una logistica inefficiente arreca danni a tutto e a tutti per la congestione e ‘inquinamento, generatore di una quota significativa delle emissioni che uccidono oltre 50 000 persone all’anno in Europa, ed è fortemente influenzata dalla cattiva organizzazione del trasporto merci o per meglio dire della logistica del cibo.

CONSIGLI CONSAPEVOLI
Possibili soluzioni: abbinare al codice a barre di ogni confezione il luogo di produzione, una tabella con i km percorsi per arrivare al punto vendita e riportarli sullo scontrino. Inserire elementi relativi all’impatto di un prodotto in termini di CO2, per kg di merce km. Si potrebbero permettere al cliente di optare per la scelta meno impattante.

maurizio mariani, direttore di Eating City ha fondato e presieduto Risteco, ricercatore e consulente di logistica del cibo

NO CAP

Da tempo il tema della sostenibilità è entrato a far parte del linguaggio quotidiano, ma spesso identificato con la tutela dell’ambiente. Se è cresciuta la consapevolezza circa l’acquisto di cibi ritenuti più ecologici, meno lo è sulla sostenibilità sociale dei prodotti agricoli.

Il caporalato vede coinvolti nello stesso dramma braccianti locali e immigrati e nulla sappiamo sulla retribuzione e sul rispetto dei loro diritti. Il fenomeno dello sfruttamento è stato in Italia ignorato per anni fino al 2011quando le istituzioni hanno emanato la legge 196/2016 che considera reato penale l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, e permette di perseguirne i responsabili: “caporali”, aziende agricole e singoli datori di lavoro.

Esistono altre forme di sfruttamento, più subdole e meno visibili, come il lavoro “grigio”, dove un contratto regolare nasconde gli abusi come straordinari e contributi previdenziali non pagati. Per arginare il fenomeno e ridare valore al lavoro va cambiato il modello economico agendo sulla causa che lo determina: il prezzo di vendita.

È il percorso scelto dall’associazione No Cap: agire su tutta la filiera per definire un prezzo giusto che veda soddisfatti tutti gli attori coinvolti, e intercettare il lavoro irregolare, obiettivo reso possibile dalle ispezioni presso le aziende agricole.

Ridare valore al lavoro non può essere una scelta, dev’essere un obbligo morale verso tutti i lavoratori, ma anche verso consumatori spesso attratti dal prezzo “conveniente” o “sotto costo”, ignari che è sulla pelle dei braccianti che si gioca la partita.

Il marchio No Cap è stato creato per rendere riconoscibile al consumatore un prodotto etico a garanzia del rispetto dei diritti dei lavoratori. E’ riconosciuto solo ai prodotti (non all’azienda) ottenuti con l’impiego di lavoratori assunti nel rispetto della normativa nazionale, che regola i contratti di lavoro agricolo, e dopo il superamento di accurati controlli nelle aziende.

Consigli consapevoli
Prediligiamo i prodotti contrassegnati dal marchio No Cap – i cibi, scelti con grande attenzione e consapevolezza per la loro qualità e il basso impatto ambientale devono inevitabilmente rispettare i lavoratori che li producono.

yvan sagnet è presidente e fondatore di No Cap.
No Cap non è solo un brand, un simbolo di eticità, bensì un progetto ampio che prende in considerazione altri aspetti riguardanti i lavoratori: assistenza legale, supporto nella ricerca di alloggi dignitosi, messa a disposizione di mezzi per un trasporto in sicurezza da e verso i campi.

CUCINA CIRCOLARE: Quando la forma diventa sostanza

Mimando quanto già avviene in natura, dove non esistono sprechi, il paradigma circolare presuppone di riprogettare gli strumenti con cui rispondiamo ai nostri bisogni e attraverso i quali dovremmo garantire alle future generazioni le medesime opportunità.

Un punto di partenza è sicuramente il cibo e per sviluppare un cambio di prospettiva è necessaria attenzione alla biodiversità, alle comunità, alla qualità di relazioni e comportamenti, a quella circolarità  materia nel corpo umano e la sua consequenziale trasformazione in energia per la vita. Insomma a ciò che spinse il filosofo Ludwig Feuerbach ad affermare «Noi siamo ciò che mangiamo». Ed è proprio tramite il cibo, indagato come flusso di materia, energia e informazioni, che la cucina circolare trova la sua essenza. Non solo un modello legato alla valorizzazione di rifiuti o sottoprodotti ma una pratica che orienta le sue priorità alla rigenerazione del capitale naturale, al rispetto dei limiti planetari, all’obiettivo di offrire uno spazio equo alla società civile.

L’umanità deve quindi andare oltre le ragioni del profitto, offrendo una visione omologata dei bisogni primari. Tutto ciò deve accadere anche in cucina, luogo dove la linearità del sistema produttivo si è spesso contraddistinta per la sua limitatezza nel concepire uso e finalità di un determinato ingrediente, a partire dal presupposto fallace della disponibilità infinita e dell’abbondanza di risorse facilmente reperibili e a basso prezzo. Nella cucina circolare, partendo dalla consapevolezza del limite, dal frenare gli eccessi, cambia l’approccio all’ingrediente i cui componenti (parti meno nobili e sottoprodotti), forniscono un ampio ventaglio di impieghi estesi a quanto avverrà dopo il suo uso/consumo. Insomma, un atteggiamento rigenerativo nei confronti del buon senso, con la finalità di dare forma e sostanza, piatto dopo piatto, alla conversione ecologica.

Consigli consapevoli La cucina circolare non è «un modello legato esclusivamente alla valorizzazione di rifiuti o sottoprodotti» ma «una pratica che orienta le sue priorità alla rigenerazione del capitale naturale, al rispetto dei limiti planetari, all’obiettivo di offrire uno spazio equo alla società civile». Motivi etici ci devono spingere ad utilizzare integralmente i prodotti e le materie prime, approccio che come tradizione ci insegna, spesso contraddistingue preparazioni eccellenti.

Franco Fassio, systemic designer, ricercatore e docente all’Unisg di Pollenzo, delegato per le Politiche di sostenibilità dell’ateneo e per le Relazioni con le aziende e la Regione Piemonte, membro dell’Osservatorio ADI (Food Design)

Nadia Tecco, economista ambientale dottore in Analisi e governance sviluppo sostenibile, docente all’Uniss di Pollenzo del corso Systemic Design for Circular Economy for Food, project manager del Green Office dell’Università Torino.

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